Sempre più spesso mi succede di restare disorientata: sono completamente incapace di dare definizioni all’amore e penso anche esso sia talmente grande da rifuggire le solite logiche comuni. Mi sto interrogando – cosa che faccio seriatamente nel tempo, quasi mi sottoponessi ad un esame diagnostico necessario – ma resta giusto un’idea che mi convince: ognuno di noi ha il suo vissuto personale a condizionarlo. Non è esattamente un’equazione matematica, per cui o si applica una regola universale e si trova la soluzione, oppure si sbaglia tutto e non si è svolto bene il compitino.
Se prendessimo in considerazione la famiglia del Mulino Bianco, per dire, sballeremmo ogni parametro: non c’è, non esiste, è frutto di una trovata atta a venderci un mondo parallelo a quello reale, ma che reale non è.
Se prendessimo una persona che ha sofferto, non crederebbe facilmente a nessuna favola nuova e tenderebbe ad avere uno smisurato bisogno di certezze e di gesti pratici, oltre che di tempi dilatati, prima di lasciarsi andare e di abbandonarsi alla fiducia cieca nell’altro.
Se prendessimo in esame il caso di chi si è trovato bene, dovremmo valutare i rischi innumerevoli del trascorrere del tempo: la fragilità umana ci insegna che nulla è per sempre e – se non lo abbiamo capito ancora – non dovremmo tanto pensare ai ricordi di chi abbiamo amato, quanto alla mancanza di chi non c’è più senza neppure averlo scelto.
Non possiamo colpevolizzare chi non ci ricambia, non se è stato onesto, né se lo siamo stati noi. Io, un calendario che stabilisca la durata dell’amore incasellandolo, non l’ho mai visto e neanche mi risulta esista uno strumento tale da misurarne l’intensità. Certo, mancandomi l’unità esatta per calcolare quello che riguarda me, non azzardo previsioni sugli altri: sbaglierei il compitino e finirei per abbassarmi la media.
Sono una tale presuntuosa da rinunciare per scelta a qualsiasi equazione. Scherzo, eh!
Guardate quanto sto cambiando: se chiedessero a me, penserei che la presunzione è di chi ha una risposta, ma – solitamente – mi dico che sbaglio io e non offendo nessuno, semmai mi sento quella un po’ toccata, perché coloro che mi sanno dovrebbero anche fidarsi delle mie parole, almeno una tantum.
“Fate attenzione ai ricordi: non ha valenza il fatto che siano più o meno rispondenti al vero. La sola cosa che conta è che di solito vi tengono costantemente ancorati al passato, vi rabbuiano il presente e vi privano del sacrosanto diritto al futuro.”
Mi sento come fossi parte di un racconto distopico e non riesco a non pensare a “La fattoria degli animali” di George Orwell.
Probabilmente, a dire quale personaggio mi si attribuisce in modo non appropriato, penserei a Berta: una persona sufficientemente buona che si vorrebbe poter manipolare.
Il punto è che non sono abbastanza sciocca per prestarmi a diventare “oggetto” e – fermamente – rivendico d’essere “soggetto”. Un soggetto pensante, buono sì, ma pensante.
Dunque, facendo il punto della situazione, osservo, leggo oltre le righe e noto come la pretesa di colpevolizzare il prossimo, strumentalizzando chiunque capiti, sia cosa che ricade su coloro che praticano certi j’accuse come niente fosse.
Qual è la morale della Fattoria degli Animali?
Il messaggio del romanzo è molto chiaro. Orwell evidenzia come l’essere umano, dopo la ribellione per desiderio di predominio, diventa peggiore della persona contro la quale lotta, imponendo a tutti una sorta di regime dittatoriale.
Mio padre, Lele, uomo sempre misurato, liberale e libero, mi ha insegnato con il suo esempio di vita che:
1) non si può piacere a tutti (proprio come io scelgo chi piace a me)
2) non si deve forzare la mano mai, chi ha testa decide nel pieno rispetto delle regole della comunità.
Quindi, quella che dapprima era una sensazione sgradevole (l’essere trattata come una Berta qualsiasi o come una facente parte del gregge), non risponde affatto alla mia personalità.
Sono stata sempre “soggetto attivo” e non divento un “oggetto passivo” oggi, accipicchia, chi vuol dire – s’accomodi, lo dica pure – magari ha le sue convinzioni e i suoi pregiudizi: che diritto ho io di disilluderlo? Nessuno.
Un insegnamento letterario, questo, che mi riporta dritta a mio padre: grazie ancora babbo, la tua saggezza – da sola – non è scontato m’arrivi immediata. Prima devo respirare a lungo, contare un bel po’ e ritrovare le tue parole perché mi mancano moltissimo.
Ho qualche difetto anche io, “humano sum”, e le cose non rispondenti al reale mi offendono, le accuse mi indispongono, la gente che – senza scrupolo alcuno – usa le persone per colpirne altre mi atterrisce: ci intravedo una malizia che non mi appartiene e che non voglio neppure mi sfiori, mai, per nessuna ragione al mondo. Ed è così che parto col mio Shuttle personalissimo, me ne vado nel pianeta dei furibondi alla velocità della luce. Mio padre lo capiva e, solo con lo sguardo, mi riportava a terra. Mi dava la misura delle cose quando mi scappava perché tutti, ogni tanto, anche se c’è chi non lo dice, sbottiamo. Oggi – con l’età e la consapevolezza – mi regolo da sola: se capisco che il mio Shuttle accende i motori mi rivolgo ad un paio di amici. A loro, solo a loro attribuisco il diritto di fermarmi “se” e “quando” dovesse essercene la necessità. Anche mia figlia ne è in pieno diritto: Giulia – non a caso – ha lo stesso carattere di mio padre, è dotata della grazia tipica di suo nonno. Ma, proprio come per suo nonno, vale il detto “Non c’è peggior cattivo del buono che si arrabbia”.
Cito l’explicit del mio libro “Così ti scrivo – Memorie di un dialogo”:
“Così abbiamo scritto: sapendo che uno scambio costruttivo genera essenzialmente domande, risposte, idee, gratitudine e – quindi – infinita abbondanza.”
Esiste una forma d’ignoranza che risulta quasi salvifica: è – per certi versi – simile a quei gran temporali estivi che, giungendo all’improvviso, sembrano portarsi via tutto ma, alla fine, cambiano e sparpagliano solo le carte sulle scrivanie. Al massimo si sentono battere gli infissi, si corre per chiudere o si raccoglie la pioggia.
Tutto è caotico, rapido e si conclude nel nulla di fatto, nonostante il rumore tanto fragoroso.
Un po’ come guardare attraverso dei contenitori ricolmi d’acqua: in realtà si alterano esclusivamente le forme percepite, non le cose.
A volte è positivo evitare di considerare ciò che infastidisce: le situazioni dolorose – fino a che possono essere dominate – vanno gestite e tenute a debita distanza, così anche le persone che ne sono causa scatenante, sempre e comunque.
Da qui nasce la potenzialità dell’ignoranza salvifica: bisogna evitare i contatti sgraditi, di ogni genere.
Personalmente vorrei possedere un interruttore, un tasto da premere quando mi sento bene per accendere un faro sulla gioia e dilatarla, amplificarla, allargarla, ampliarla. Lo potessi premere di nuovo per spegnere le cose che mi feriscono, ignorandole e salvandomi da queste, lo farei in un nanosecondo.
Così, col mese di giugno che arriva e sta già bussando alla mia porta, ringrazio per la gioia ricevuta, per la complicità e per tutto quello che di meraviglioso è accaduto. Il resto, per questo fine pomeriggio, lo ignoro scientemente.
Sarebbe bello poter dire quello che si pensa, sempre e comunque, senza curarsi di nessuno e di niente, ma – a volte – è da irresponsabili.
A volte le persone non vogliono sentire la verità perché non vogliono che le loro illusioni vengano distrutte.
(Friedrich Nietzsche)
Ogni giorno siamo calati in un crocevia di incontri – più o meno significativi – con altri che, esattamente come noi, hanno il loro modo di intendere la vita. A pensarci è sempre la stessa musica, ci si vuole imporre, ci si sbatte per convincere il prossimo che abbiamo ragione e che le nostre certezze sono indubitabili. Anche quando dicessero castronerie, chi siamo noi per volerli dissuadere, infondo?
Qualche volta si guadagna di più in salute a non calcare la mano: quanto meno si risparmiano energie che, in altra maniera, si disperdono inutilmente e finiscono causando solo un mal di stomaco evitabile a chi insiste.
Esistono tanti mondi: quello del reale è già complesso di suo e a costruirsene di paralleli, forse, aiuta chi non riesce nell’accettare l’oggettività di alcuni fatti spiacevoli. Per conto mio, il più delle volte, lascio che sia: sono stanca di portare dimostrazioni a suffragio dell’evidenza dei fatti e neanche sono nata nell’epoca delle “Suffragette”. A volte ci provo, poi mi rendo conto con grande lucidità di non possedere il requisito base: la pazienza necessaria.
Non amo dover convincere chi guarda esattamente come me, ma non comprende, né vede.Sono certa stia in una posizione di comodo e – pensate un po’ – credo persino sia assai più avvantaggiato.
“Divo C” – Mostra fotografica – Roma, presso “Incinque Open Art” a Monti, via della Madonna dei Monti – 69 – Photography by Paola Tornambè, coutesy by Paola Tornambè.
Se siete a Roma, mi raccomando, non perdetevi questi magnifici capolavori: la mostra, dato il successo, è stata prorogata ancora per qualche giorno. Non rimandate, non perdete tanta bellezza, non procrastinate mai.
Ci tengo moltissimo, Paola è l’artista che ha contribuito al mio lavoro “Così ti scrivo – Memorie di un dialogo” – libro scritto a quattro mani con Fabrizio Bozzini ( che trovate su Amazon, con anche il formato eBook, al link https://www.amazon.it/dp/B09TRDKDJZ )favorendoci la sua opera “Il mostro interiore” per la copertina.
“Una delle peggiori tragedie dell’umanità è quella di rimandare il momento di cominciare a vivere. Sogniamo tutti giardini incantati al di là dell’orizzonte, invece di goderci la vista delle aiuole in fiore sotto le nostre finestre.”
(Orazio)
Siamo stati per oltre due anni come chiusi in una bolla, una dimensione dalla quale non solo abbiamo fatto molta fatica ad uscire, ma – una volta venuti fuori – ci siamo visti per lo più peggiorati. Ci siamo inariditi e la difficoltà che impieghiamo per comunicare con la natura, con noi stessi e fra di noi sembra una muraglia invalicabile. Dobbiamo smetterla di rimandare e di temere. Dovremmo riprendere meglio in mano le redini del nostro esistere, senza troppe esitazioni e – mi sia fatta la concessione di essere onesta – dovremmo essere molto meno ipocriti.
Il tempo scorre inesorabile, siamo già a maggio, come sempre spendiamo la nostra esistenza nel progettare il domani senza saper vedere più l’oggi con sguardo nitido. E pensare che la vita è “Qui ed ora” – “Hic et nunc”.
Chissà perché inseguiamo le chimere senza saper realizzare mai nulla di concreto? Sarà che non mi piaceva, non mi piace e non credo mi potrà piacere mai chi non mantiene la parola data, chi predica il perdono per compiacere la pletora ma non lo mette in pratica, chi dimentica, chi ferisce e soprattutto – dell’offesa all’intelletto altrui – ha deciso di farne sport quotidiano. Non prediligo coloro i quali sottovalutano regolarmente il prossimo, né coloro che definire ingrati è un eufemismo: fateci caso, sono sempre gli stessi che si mostrano vestiti e ben addobbati di perbenismo, dalla testa ai piedi. S’ammantano di una generosità che – alla prova dei fatti – non è cosa loro.
Mi piace chi si ridimensiona, chi riesce ancora adesso a concedere fiducia, chi è schietto. Sento che mi è più somigliante, più vicino, più similare. Bisogna prendere distanza dalle altrui distanze e da chi si vuol sedere soltanto sugli scranni, senza avere meriti particolari.
Il mio cane è più libero di me, per adesso, ovvio: io sto combattendo una difficile lotta con i miei freni inibitori. Vorrei poter dire quello che penso, quello che ho capito (da tempi atavici, non oggi), ma la gentilezza e la buona educazione mi impediscono di farlo. Per questa ragione fingo di essere molto più sciocca ed evito inutili discussioni. Ad essere onesti – troppo spesso – si paga un dazio così oneroso che, prima, c’è da valutare se davvero l’occasione merita. Meglio essere più gentili e non dire sempre sino infondo cosa si è realizzato veramente. La mia è una sorta di “sciocchezza studiata bene” – per dirla con un ossimoro – mi sento di voler somigliare a “L’idiota” di Dostoewskij: sono scioccamente idiota, onesta e gentile con chi ha imparato che, nella vita, dopo aver molto preso, c’è anche qualcosina da dare. Una tantum, magari. Per ora invidio, in senso buono, quel gran bel bassotto che mi tengo vicino.
“Umiltà è smetterla di proteggere le tue convinzioni, smetterla di affermare a ogni momento la tua esistenza, smetterla di dimostrare a chi non si interessa a te che meriti di essere vivo.”
(Alejandro Jodorowsky)
Esiste una linea di demarcazione fra l’umiltà e la presunzione, è una linea sottile, non bisogna oltrepassarla. Le persone realmente intelligenti non si atteggiano mai. Fateci caso. Non fingono di essere buone per mantenere la facciata, non ne hanno necessità. Chi non si sbatte per difendere le proprie convinzioni – pur avendone – è più sereno: non c’è bisogno di richiamare l’attenzione altrui per dimostrare che si è vivi e si esiste. Semplicemente si esiste, e basta, oltre le più scellerate presunzioni. Di questo sono convinta. Di altro, al momento, non vorrei dire: infondo, la citazione di Jodorowsky, parla da sola.
“Come un bel fiore, pieno di colore ma privo di profumo, sono le belle ma inutili parole di colui che non agisce in accordo con esse. Ma, come un bel fiore, pieno di colore e ricco di profumo, sono le belle ma efficaci parole di colui che opera in accordo a esse.”
(Virgilio Brocchi) – Le aquile
Mi è piaciuto molto questo esempio: la metafora del fiore ci sta, siamo anche a primavera e poi – mi sia consentito – di “aquile” siamo pieni, se solo riuscissimo a togliere la maschera alle colombe della pace fasulla, ne scopriremmo moltissime.
Solitamente, alle persone si dice “Sei un’aquila” per intendere che sono state furbe, il che non vuol dire affatto essere intelligenti. La furbizia ha in sé un aspetto più egoistico e limitato dell’intelligenza: chi è veramente intelligente profuma di sincerità, non azzarda richieste senza motivazioni, non tollera insulti al proprio intelletto pur non mancando di rispetto a nessuno. Mai. Ha la completezza del fiore che è sì bello e colorato, ma che profuma anche. Inutile mostrare i colori se poi non c’è nulla a seguire, si resta solo sul piano dell’immagine, non si penetra alcuna profondità.
La cosa che faccio – e farò sempre – fatica a comprendere, invece, è l’atteggiamento del contorno, dei più, della massa: la finzione di non vedere, il menefreghismo, l’incapacità di prendere posizione. Credo sia peggio questa cecità di comodo rispetto ai calcoli dell’aquila di turno, perché – se tutto tace – l’aquila continuerà indisturbata a mettersi la sua mascherina da colomba della pace. Ed è il mio giovedì Santo, così ho preso una “licenza Pasquale” per esporre la mia idea. Non dovrei aver commesso un peccato imperdonabile, spero.
A chi dovrei pensare adesso? Chi chiamerò per parlare al telefono? _ Voi mi sapreste rispondere o no date le vostre molteplici soluzioni ogni volta che io ne avrò bisogno? _ Ho voglia di emettere un urlo sordo. Sono stanca di essere troppo forte. Forse mi regalerò qualche cedimento. Vorrei uno spazio per crollare a terra. Rovine _ null’altro che rovine _ basta. A cosa dovrei pensare ogni mattina? Che scherzo mi giocherà la testa oggi quando sarò arrivata e vedrò casa tua? Non ci diremo ancora di farci coraggio. Dunque piangerò tutte le mie lacrime _ e piangerò da sola _ così nessuno lo saprà mai. Neanche tu.
“Un modo sicuro per irritare la gente e metterle in testa pensieri cattivi è quello di farla aspettare a lungo. Ciò rende immorali.” (Friedrich Nietzsche)
E, questo, è un fatto: quando ti chiedi spesso se sei nel posto giusto non è buon segno.
Io non amo la gente che insiste, per questo non vorrei mai al mondo replicare la stessa domanda più volte. Significa che non sono stata tenuta in considerazione: è lapalissiano. Butto là una parola, si replica che devo chiedere, non uso la carta bollata che non mi sembra il caso – non fra amici – e non pretendo un altro DPCM, su, non diventiamo ridicoli.
Mi accorgo per la volta ennesima che ci sono due pesi e due misure, ne prendo atto, faccio in modo di chiudere ogni altra scusa. Capirei e avrei pazienza, se non ci fosse quella sensazione che mi ha già sospinta troppo a dire “Siamo sicuri che la mia presenza, qui, ha senso?” e non mi fossi sentita rassicurare.
Ma io non sono sorda a quella vocina: continua a ripetermi “Di te non frega nulla, vattene, puoi, devi: fallo. Hai una dignità.”Così, con tutta la mia determinazione, prendo le mie carabattole e sloggio. Non frequento molto in Chiesa per dire litanie né orazioni, forse sono una pessima credente e leverei anche il forse. Sono una persona pragmatica, una che si farebbe in quattro per contribuire, una che non si perde col “detto” – “non detto” perché crede possa fare giusto il paio col “nulla di fatto”. Sono un cane sciolto, una che mette il guinzaglio ai bassotti e ai coccodrilli ma – sicuramente – non sono una che pretende niente.
Ma, c’è un ma: ho la memoria di ferro. Non puoi promettere se sai che non manterrai. Primo perché lo so di già anche io e – finché non dimostro che la tua parola è stata detta tanto per dire – mi manca la pace. Me ne sento come defraudata. Quindi vengo e ti domando, diretta, come una freccia, quando pensi di ricordarti le cose che hai accennato. A quel punto, ridotte le opportunità a due scelte, o mi dici “Me ne dimenticherò a vita” oppure, se anche mi dici “Fra tre anni”, io sono la donna più felice del mondo.
Non perdo tempo e parole. Non ne faccio perdere. Non voglio il giochino subito, come le bambine: cerco la lealtà, la coerenza, come tutte le persone mature. Il guaio della gente è sempre quel maledetto vizio di non fare ciò che dice. Sì che tu non eri andata ad implorare.
Adesso che si è scritto, perché è e resta atto liberatorio, si va a leggere altri lemmi: ho parole in attesa, non posso abbandonarle. Caffè e lettura: via con i file.
“L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.” (Goethe)
Ho scritto un libro dopo aver recensito e promosso opere di autori emergenti, come pure quelle di scrittori tradotti in ben 52 (cinquantadue) lingue nel mondo. L’ho fatto senza esserne pentita, sia chiaro, e lo rifarei per come sono io e per i miei valori di persona. Mi sono cimentata in versi – cosa che pure amomoltissimo, tanto da aver messo su questo blog da anni – e non ci ho dormito, in alcune nottate, pur di compiacere e di supportare coloro i quali stavano cominciando a percorrere seriamente il cammino complesso di ogni autore.
Nessuno è nato con il dono di Giacomo Leopardi, intendiamoci, che scrisse il suo primo componimento a soli undici anni. Nessuno è Fernando Pessoa, che in un solo dì ha ricevuto tanta illuminazione da imprimere su carta un numero di scritti esorbitante. Neanche lo stesso Haruki Murakami – che è il mio attuale autore di riferimento – ha mai rilasciato dichiarazioni intrise di tanta presunzione: anzi, egli afferma candidamente di aver recensito per dei ristoranti “spalando la neve della cultura” e facendo esercizio, confessando di non essere capace di comporre haiku nonostante il padre ne fosse onoratissimo maestro.
Ho dato molto, molto continuerò a dare alle persone che stimo poiché ritengo sia essenziale provare gratitudine. Ho scritto, nel mio libro d’esordio “Così ti scrivo – Memorie di un dialogo”, libro in vendita da pochi giorni su Amazon, che la gratitudine la si può allenare con la semplice buona creanza. Ne sa bene qualcosa chi ha cominciato a leggermi, soprattutto lo sa senza tema di smentita il mio co-autore, Fabrizio Bozzini: un rapporto epistolare non lo scambi con qualcuno a caso. Arrivi anche ad aspettare tanti anni prima di proporlo alla persona adatta e così è andata.
Sono grata a chi mi ha supportata, sono grata a Paola Tornambè, sono grata al gruppo Libreriamo per l’appoggio, sono grata – immensamente grata – a tutti quelli che hanno compreso quanto possa significare tutto questo per me. Però, c’è un però.
Sono pentita amaramente di non aver ricevuto neanche un cenno, diciamola com’è, sono delusa per essere stata redarguita e svilita, perché “potevo scrivere anche da sola, al massimo col mio pescivendolo.”
E certo, mi dico, sarebbe stato molto credibile scrivermi e rispondermi da sola, sai che figurone? Da ricovero coatto alla neurologia, proprio. O anche esordire con il pescivendolo, dai, parliamone, io che non mi occupo della spesa perché è un compito che si sono suddivise mia madre e mia sorella, ora andavo a cercare un venditore di merluzzi e baccalà?
Inizialmente queste parole non le ho volute calcolare. Poi – però – mi sono sembrate avere l’eco e ancora mi sembrano risuonare senza fine nella mia testa. Se non vuoi ferire me, se non vuoi ferire la persona che ho scelto e cui devo un grazie eterno per enne ed uno mila ragioni, scegli parole meno rozze.
Dopo – te lo dico – fai in modo di non scordarti che ti è stata tesa la mia mano diverse volte. Fallo, perché il mondo delle persone per bene funziona così, ha delle regole semplici, eppure molto nette: non le può ignorare nessuno che non abbia l’idea e la voglia di prevaricare il prossimo. Fosse terminata, poi, sarebbe stata una cosa messa in preventivo. Andare a raccontarla come se avessi la ragione in tasca, in mia assenza, eludendo questi particolari (che non sono poca cosa, anzi), ti trasforma in quel soggetto ingrato, spavaldo, troppo sicuro di sé, certo di possedere la verità ma tanto sbadato. Non si accorge mai nessuno di essere privo di tasche, ergo anche del bigliettino con la formula magica.
Magari – anche se siamo cinquantenni – dovremmo regredire allo stato di bambini perché loro, le creature, non restano così. Si tengono il broncio per un po’, è vero, dopo però si cercano e vogliono riappacificarsi per giocare insieme, a loro manca la malizia. Adulti con simili atteggiamenti, io li collocherei all’Asilo Mariuccia poiché il mio concetto di gratitudine è antico come quello di Goethe. L’ho detto che non è un pesce d’aprile, vero? Sì, l’ho messo nel titolo. Buon pro ci faccia l’arrivo del nuovo mese, amici, c’è bisogno di volare alti con la mente e di liberarsi dai macigni per librarsi nel cielo di primavera. Nessuno merita parole come fendenti, mai. Mai.
Voltati, lasciati tutto alle spalle e continua ad andare oltre. Ci sono situazioni nelle quali il peso di tutto il mondo sembra stallare sulle tue spalle, succede, è così per tutti: se ti lamentassi – oltretutto – non ti sentirebbe nessuno. L’eco delle tue parole, anche se motivate, risuonerebbe assordante fino a fare il paio con le assurdità che vedi. Vai avanti. Fai una bella giravolta e porta con te esclusivamente chi merita di esserci.
Quella mancanza di finezze e di considerazione non ti appartiene con tutti ma, se sei sensibile ed attenta, la vedi chiaramente nei più. Che poi – siamo onesti – non ci vuole una grandissima quantità di scienza per capire. Forse servirà a loro, ma non serve a te.
Le cose dovrebbero essere condivise, specie le responsabilità e le gioie: che altro senso ha un qualsiasi rapporto di amichevole corrispondenza? Non funziona così, non si merita nessuno tanto peso addosso: liberatene, adesso, subito.
Lasciali come sono – poco attenti – e lascia stare se non comprendono: sono loro a non afferrare, non sei certo tu che non l’hai capito. Lascia da parte quell’ipocrisia per cui tutti sembrerebbero poter essere speciali. Sai che non è così. Sai quanto pesano le parole vuote. Per chi le proferisce regolarmente, ad esempio, non costano nulla. Tu – almeno – salvati e sii diversa. Prosegui dando senso a d ogni cosa che dici e che fai. Saluta, ringrazia, sii gentile. Però non sbagliarti e non confonderti mai con quelli che amano apparentemente l’intera umanità. Non si può essere così tanto fasulli, almeno tu non ci riesci, non riempire i sacchi di pesi inutili. Non sovraccaricarti la schiena.
Voltati e vai dove preferisci, libera. Falli andare dove preferiscono, liberi. Piantala di guidarli come giocaste a moscacieca. La benda che si sono voluti mettere sugli occhi è la loro protezione, tu guarda ancora la luce.
Quello che hai dato e che dai, solitamente, è la tua cifra: dare è sempre un dono ma non è detto che venga ricambiato da chi ha ricevuto. Trovo sia corretto così o saremmo tutti uguali ma i cloni della pecora Dolly non mi risulta abbiano fatto una fine gloriosa, anzi.
Io sono una persona che non si tira indietro, né se c’è da dare, né se c’è da dire e – alle volte – la sincerità costa. Non importa: pago. L’ho scritto anche nel libro, del resto.
Non mi tiro indietro nel realizzare un progetto a quattro mani, ringrazierò a vita chi mi ha appoggiata, è giusto sia così e ricordo a chi non conosce la gratitudine che può essere allenata: provate ad essere signorili e vedrete che l’allenamento vi sospingerà oltre limiti che vi ostinate a mascherare come fossero punti di forza. Siamo seri: un limite, quale che sia, non è mai paragonabile ad un valore aggiunto, sicché rischiamo di diventare ridicoli. Alla nostra età dovremmo essere individui compiuti: proviamo a capirlo.
Scrivere questo libro è stato liberatorio per me e – se non avessi avuto accanto il mio speciale compagno di viaggio – non lo avrei potuto fare così come lo sognavo io. Ciò detto ringrazio tutte le persone care e gentili che si stanno complimentando e che ne hanno capito la sfumatura, però sono fiera di aver spiattellato in faccia la mia idea a una che mi ha ignorata. Una persona ti delude quando tu la pensi cresciuta, però la chiami e ti risponde con una scusa da infante, è cosa più che ovvia, ed è anche ovvio come la tua cifra sia il dare mentre la sua sia l’accaparrare. Le sentenze – se le volessi – le chiederei a chi è uno scrittore molto più noto, è lapalissiano, poi, quando la sentenza è F viene dopo P, allora esplodo in una risata fragorosa perché questi Bukowski “de nuantri” forse hanno dimenticato l’alfabeto.
Io, ad una mia amica, ad una signora, non avrei mai mosso questo rimprovero che – pure – ha una sua cifra tanto leggera da perdersi nel vento. Ad ogni modo non è scorretto donare generosamente, semmai è da orbi non riconoscerlo, ricordiamolo tutti, specie chi più ha ricevuto e parla rimproverandoti, quasi con rancore.
Un uomo ed una donna adulti, determinati e compiuti, decidono di indietreggiare nel tempo, dando spazio al loro aspetto di amici particolarmente sognatori e un po’ fuori dagli schemi classici della comunicazione attuale. Non usano pseudonimi, né inventano personaggi, solo cominciano a scriversi di tutto avviando uno scambio epistolare, immediato e trasparente, che sistematicamente raccolgono e puntano a editare. Sentono l’esigenza di lasciare una traccia, un consiglio alle loro rispettive figlie e ai loro amici: l’affetto fraterno è prezioso e un’affinità elettiva tanto bella non la si può circoscrivere in alcun Tweet. Lei lancia l’idea, una cosa che aveva dentro da 16 anni almeno, lui la coglie al volo. Inizia la loro introspezione, così, con la scelta di una parola che sia misura e non si lasci scadere nella volgarità accidiosa tipica della pletora. Paola scrive dalla sua cittadina rivierasca, con la sua alta marea e col peso dei suoi scogli. Fabrizio risponde dalla sua città, con il picco dei suoi pensieri simile alle vette e alle alte quote dei suoi monti. Fuggono – entrambi – dai rapporti sostanzialmente basati sulle offese gratuite, dalle varie realtà parallele che ognuno si crea per puro spirito di sopravvivenza; cercano “qui” e “ora” di scambiarsi domande, risposte, dubbi con grande rispetto e moltissima fiducia. Percorsi paralleli che vanno a sovrapporsi: Fabrizio avanza dalla sua nebbia, Paola si discosta dall’incomprensibile ma, com’è loro abitudine quando si sentono e sorridono, evitano quelle sentenze emesse con toni sprezzanti da chi si auto-conferisce titoli sentendo di essersi tramutato in un insostituibile maestro di vita. “Così ti scrivo” è l’istantanea di due persone e dei loro mostri interiori, delle loro sensibilità e dei loro timori esposti senza la pretesa di voler sembrare né invincibili, né supereroi.
“Possediamo certezze, siamo forti, siamo sicuri di poter gestire ogni cosa perché noi siamo esseri completamente liberi!”
Ma ne siamo veramente certi? Siamo convinti davvero che nulla mai ci sfiori?
Non abbiamo timori, finché un bel giorno arriva una pandemia, poi un’altra guerra, nel mentre ci si azzanna per il nulla e si è persa la bussola completamente. Noi, quelli liberi, quelli sicuri, in un attimo non abbiamo più riferimenti.
Chi scrive si diverte a tirare fuori uno schwa (la e rovesciata) e capovolge tutta la nostra lingua. Chi legge non ci capisce poi molto – io, personalmente, mi sento un’analfabeta funzionale – e viene etichettato come fosse un bacchettone. All’università studiare Dostoevskij diventa un atto rivoluzionario, tanto da meritare la censura.
Io mi sento come “L’uomo nero” di Esenin e penso mi possa scappare quel “vomito azzurro” a causa della rabbia che mi pervade quando – in nome del pregiudizio – si oscura la bellezza.
Non sono affatto certa di questa libertà tanto acclamata a parole. I fatti la smentiscono.
“La gratitudine può anche essere allenata: se non è una dote che possediamo, la dobbiamo imparare tutti. Basta un po’ d’impegno.”
Personalmente sono qui da oltre dieci anni e, negli ultimi otto, è arrivato l’amico @Antonio79B di #PuntoLettura con il quale vanto un rapporto stretto, piacevole, fatto di rispetto reciproco e di stima. Capita spesso che ci si parli, condividendo gioie, risate e – perché no – piccoli episodi meno edificanti.
#PuntoLettura è anche un punto fermo, dunque, gestito benissimo nel quotidiano da una persona seria, di quelle per bene: di quelle rare, insomma.
Non c’è mattinata in cui, se sono collegata, io non faccia un salto a leggere i suoi puntuali aggiornamenti. Così, oggi che celebriamo l’ottavo compleanno della pagina Twitter di @Antonio79B, invito anche voi a seguirlo.
P. S. Lui è un fenomeno: si accorge sempre se c’è chi gli copia i Tweet, onestamente – quando poi me lo dimostra in DM – ci rido senza ritegno.
#AuguriPuntoLettura e, ogni tanto, fatti scopiazzare qualcosa!
Cerco di dare il mio meglio e di afferrare il meglio che gli altri mi porgono. Sono sempre stata di buona compagnia, sorridente, determinata nel voler trovare il lato positivo del prossimo – anche tra tante particolarità – e non ho mai fatto processi alle intenzioni, specie perché non vorrei mai si facessero a me.
Ho perdonato chi mi ha privata della sua fiducia: l’ho fatto scientemente, non tanto per buonismo ipocrita e fine a se stesso. L’ho fatto dando spiegazioni e l’ennesima opportunità. Se si fosse ripetuta l’incomprensione – allora – avrei saputo che fare. La mia coscienza sarebbe stata linda e mi sarei distaccata senza proferire parola.
“Ho sempre tentato di nuovo, per questo non ho mai avuto rimpianti.”
Però, se arriva l’ennesimo j’accuse senza senso, io sono portata a fare chiarezza, al confronto sereno e rapido: c’è un momento e c’è un tempo, se li si oltrepassa, va da sé, non rimango più ad aspettare. Ho imparato a difendermi da chi mi getta addosso le peggio responsabilità: non sono la discarica di nessuno.
Svegliamoci, quando il solo fatto di esistere ci viene rinfacciato capiamolo bene: non siamo graditi e – magari inconsapevolmente – chi ci sta difronte è convinto di essere nel giusto. Che sia un’amicizia, un affetto qualsiasi non importa perché è una situazione tossica e ci fa solo somatizzare dolore.
Ricordiamoci anche che, chi ci colpevolizza, sta proiettando su di noi un suo stato d’animo: molliamo la presa, sciogliamo gli ormeggi e prendiamo a navigare. Se un affetto si spegne sta solo evaporando, quindi non era mare ma pozzanghera. Bisogna darsi tregua. Mio padre diceva sempre che non si può, né si deve, piacere a tutti.
Quella di stamattina è una strana e divertente domenica, al contempo: in un’ora mi è capitato d’essere bacchettata da due persone che, oltretutto, non interagiscono praticamente mai con me. Una di queste mi ha spiegato le teorie di Azimov in un solo tweet e – onestamente – non mi ha raccontato nulla di nuovo poiché ha scritto cose arcinote. Pazienza, mi stavo soltanto attenendo strettamente al tema del “Primo amore” ed ho commesso l’errore irreparabile di citare Albert Einstein. Robaccia superata, ovvio. Accidenti a me e alle mie idee arcaiche ed antiscientifiche. Che la scienza mi perdoni, ma esiste una netiquette non scritta e somiglia alle fotografie di Noé Sandas, c’è qualcosa di nascosto. Pensate, devo essere così suonata da non riuscire ad apprezzare moltissimo chi gioca a correggermi senza nemmeno conoscermi. Secondo la mia concezione di gentilezza e di buona creanza, almeno, non vado, né andrei mai, a fare la maestra sotto ai tweet altrui, a meno che non ci sia una confidenza tale da assicurarmi di non sembrare fanatica. Azimov – tuttavia – è una pietra miliare della scienza, e passi. Non passa che si sfoggi il sapere perché è infinito e – Leopardi prima di Azimov – ha spiegato abbondantemente quanto tutto ciò resti poco delicato. Il podio è di chi ha sottolineato come non si possano postare i Macaron il 2 gennaio: Ladurée ha un calendario, io non lo sapevo e li ho postati? No. Non esiste un calendario e, un tweet fatto esclusivamente per dire buongiorno, lo faccio senza consultare l’agenda. C’è la possibilità – non molto remota – che non piacciano. Giusto. In tal caso c’è anche la possibilità di soprassedere poiché io, sotto alle Time-Line di lor signori, non vado a fare la preside e – quando vedo retweet corredati di errori grammaticali spaventosi – provo l’impulso irresistibile di fare la “GrammarNazi”, ma mi trattengo per gentilezza. In chiusa, sempre giocando a nascondino, ho spesso la voglia irrefrenabile di scrivere “Se devi salutare solo tre amiche tue, fai tre tweet e non scrivere che le abbracci dove ci sono altre venti persone taggate.” Anche questo è un mio desiderio legittimo, però l’ho represso per educazione: proviamo a giocare insieme, è molto più bello.
Arriva un nuovo anno, ma sarà esattamente come quello già trascorso: i frutti della speranza non matureranno da soli. Avranno bisogno di calore, di una serra, di essere curati ed accuditi con le dovute cautele.
Arriveranno degli imprevisti – serviranno a metterci alla prova – e valuteremo le nostre capacità, la nostra pazienza, la nostra scorta di energia. La mia l’ho testata abbastanza da capire come stia scarseggiando. Mi sento appesa al nulla, col vuoto cosmico pronto a fagocitarmi.
Ogni perdita è un ceffone in pieno viso, in ogni attimo si temono raffiche di parole dette a vanvera, dalla gente che – come usasse proiettili – stermina altra gente. Per scamparla ci barrichiamo tutti, come soldati in trincea. Alla fine, tutto sarà ancora uguale: è una guerra perduta quella degli esseri umani, così fragili e così poco resilienti.
A leggere i giornali mi viene la nausea, a guardare i messaggi degli amici sono spaventata, a guardare in casa mia mi sale il magone, di haters in rete non mi curo ma, onestamente, anche di tutta questa grande stupidità sono stufa. La situazione pandemica non è di proprietà dei vaccinati, dei non vaccinati, dei poveri, dei ricchi, dei politici, dei brutti, dei belli (e potrei continuare). I virus non hanno mai avuto un titolare, neanche se le case farmaceutiche vendono medicinali dietro (ovvio) compenso cambia la situazione. Solo c’è uno spiraglio – molto piccolo – ed è scegliere il meno peggio per tutti. A livello planetario, o non se ne verrà mai fuori.
Auguro più fortuna, più buonsenso e meno polemiche a tutti.
Come un seme anche la mia anima ha bisogno del dissodamento nascosto di questa stagione.
Giuseppe Ungaretti
Ecco, ho bisogno di nascondermi, non mi voglio far trovare da tutti. Sto scegliendo “chi” e “come”, ho imparato che – se aggiungo tutto al “dove” – posso respirare e cambiare l’aria che sentivo essere ormai asfittica: a volermi, sanno dove sono, non è difficile.
Stamattina non riuscivo a dormire, eppure ero andata a letto stanca. Sono uscita col cane, a passeggio fra una goccia e l’altra, cuffia in testa e capelli raccolti, imbavagliata dalla mascherina. Il mio nanetto trotterellava felicissimo, io mi sentivo strana, le povere palme sembravano intirizzite di freddo mentre le prime automobili cominciavano a scarrozzare. Chissà poi dove se ne dovevano andare a quell’ora, il giorno di Natale?
Certo – una giornata così triste – non mi era mai capitata, non a Natale. Tanta stanchezza, preoccupazioni varie, amici che sono in isolamento per questo virus e – per rendere tutto più semplice – le lasagne preparate con cura rovesciate nel forno da mamma che non si arrende mai, neanche con un polso rotto.
Ad essere un seme riposerei e potrei germogliare a primavera. Evidentemente devo essere una sorta di sempreverde, altrimenti non si spiega.
Per fortuna Natale capita solo d’inverno: è la stagione che più gli si addice, umida e triste come una pianta secolare che il vento rivierasco ha piegato, senza essere mai riuscito a sradicarla. Auguri a tutti.
Questa faccia è mia. L’ho trovata spulciando altri file e neppure ricordo chi aveva trasformato una mia foto in carboncino, ma poco conta. La cosa importante è che probabilmente potrei risalire al 1678, anno in cui Francois de La Rochefoucauld scrisse questa sua massima definendo il concetto di “Amor proprio”. Non è una buona considerazione. Se la scrivessi io, oggi – è cosa certa – gli darei un altro titolo. La chiamerei “L’egoismo” o “Il narcisismo”.
“L’amor proprio è amore di sé e di ogni cosa per sé; rende gli uomini idolatri di sé stessi, e li renderebbe tiranni degli altri se la fortuna ne desse loro i mezzi; non indugia mai fuori di sé, e si sofferma su argomenti estranei come le api sui fiori, per trarne ciò che gli è necessario. Nulla è più impetuoso dei suoi desideri, nulla è più segreto dei suoi progetti, nulla più astuto della sua condotta; le sue sottigliezze non si possono descrivere, le sue trasformazioni superano quelle delle metamorfosi, le sue finezze quelle della chimica. Non si possono sondare le profondità né penetrare le tenebre dei suoi abissi. Là è al riparo dagli occhi più perspicaci; egli vi compie mille giri viziosi. Spesso è invisibile anche a se stesso, vi concepisce, vi nutre, vi alleva, senza saperlo, un gran numero di affetti e di odi; ne forgia di così mostruosi che, quando vengono alla luce, li rinnega o non può risolversi ad ammetterli. Da questa notte che lo protegge nascono le ridicole convinzioni che ha di sé; da qui derivano i suoi errori, le sue ignoranze, le sue rozzezze e le sue idiozie sul suo conto; la persuasione che i suoi sentimenti siano morti quando sono solo addormentati, l’idea di non aver più voglia di correre non appena si rilassa, e di aver perduto tutti i piaceri già appagati. Ma questa fitta oscurità che lo nasconde a se stesso, non gli impedisce di vedere perfettamente ciò che è esterno a lui, cosa che lo rende simile ai nostri occhi, che scoprono tutto, e sono ciechi solo per sé stessi. Invero, quando si tratta dei suoi maggiori interessi, dei suoi affari più importanti, allorché la violenza dei suoi desideri ridesta tutta la sua attenzione, vede, sente, capisce, immagina, sospetta, penetra, indovina tutto; si è quindi tentati di credere che ciascuna delle sue passioni abbia una specie di magia sua propria. Niente è così intimo e così forte come i suoi legami, che cerca inutilmente di rompere alla vista delle estreme sciagure che lo minacciano. Eppure talvolta, in poco tempo e senza alcuno sforzo, fa quello che non gli è riuscito di fare in parecchi anni e con tutto ciò di cui era capace; da qui si potrebbe concludere assai verosimilmente che è lui stesso ad accendere i suoi desideri, e non la bellezza e il merito delle cose che ne sono oggetto; che il suo piacere è il pregio che le fa risaltare, e il belletto che le impreziosisce; che corre dietro a sé stesso, che segue il proprio gusto quando segue le cose di suo gusto. Esso incarna tutti i contrari: è imperioso e obbediente, sincero e dissimulato, misericordioso e crudele, timido e audace. Ha inclinazioni differenti secondo la diversità dei temperamenti che lo guidano, e lo votano ora alla gloria, ora alle ricchezze, ora ai piaceri; cambia secondo il mutare dell’età, della fortuna e dell’esperienza; ma gli è indifferente averne parecchie o una sola, perché si divide tra parecchie e si concentra su una quando gli è necessario o gli piace. È incostante, e oltre ai cambiamenti che derivano da cause estranee, ve ne sono un’infinità che nascono dal suo intimo; è incostante per incostanza, per leggerezza, per amore, per novità, per stanchezza e per nausea; è capriccioso, a volte lo si vede al lavoro con la massima sollecitudine, alle prese con fatiche incredibili, per ottenere cose che non gli portano alcun vantaggio o che addirittura gli sono nocive, ma che persegue perché le desidera. È bizzarro, e spesso concentra ogni sua attenzione nelle occupazioni più frivole; trova tutto il piacere nelle più sciatte, e conserva tutta la fierezza nelle più spregevoli. È presente in tutti gli stati della vita, in tutte le condizioni; vive dappertutto, vive di tutto, vive di niente; si accontenta delle cose come della loro privazione; passa perfino dalla parte di chi lo combatte, entra nei loro disegni e, cosa ammirevole, insieme a loro odia se stesso, trama per la propria dannazione, lavora per la propria rovina. Infine si preoccupa solo di esistere, e pur di esistere accetta di essere nemico di sé stesso. Non bisogna dunque stupirsi se talora si accompagna alla più rigida austerità, se entra così audacemente in società con essa per distruggersi, dato che, nel momento stesso in cui si sgretola da una parte si ricompone dall’altra; quando si pensa che abbia rinunciato al proprio piacere, non fa che sospenderlo, o mutarlo, e anche quando è sconfitto e si crede di essersene liberati, lo si ritrova trionfante della sua stessa disfatta. Ecco il ritratto dell’amor proprio, di cui tutta la vita è soltanto una grande e lunga agitazione; il mare ne è un’immagine sensibile, e l’amor proprio trova nel flusso e nel riflusso delle sue onde continue una fedele espressione della successione turbolenta dei suoi pensieri, dei suoi eterni movimenti.”
Francois de La Rochefoucauld – Massime – 1678
Leggetela, riflettete: è semplice. Ora ditemi se è il caso di prendersela quando vi sentite delusi o amareggiati, perché capita a tutti. Nessuno di noi può sapere che cosa c’è nell’insondabile abisso dell’animo umano, men che meno nel cervello di un’altra persona. Resta soltanto il tempo a dare risposte sensate. Fidatevi, se esiste un gentiluomo certo – com’è che si dice – sarà il tempo a mostrarlo al mondo.
Oggi vorrei raccontare un episodio di quando facevo le elementari. Credo sia significativo. La mia maestra – una donna che ho molto amato e che mi voleva un bene sconsiderato – ci insegnava la famosa “insiemistica” e, a me, non riusciva per niente complicata. Mi piaceva tanto il Diagramma di Venn, lo capivo bene, per me è stato da subito un concetto intuitivo, facile, lampante. Completamente lapalissiano.
Quello che non capivo – al contrario – era come mai tanti genitori la considerassero una materia così complicata, al punto tale che, questa povera insiemistica, sembrava essere la pietra dello scandalo e sentivo alcuni lamentarsi dicendo “Poveri cocchi, li farà ammattire con questi insiemi!”
Poi c’era il saggio di casa – quello che mi sapeva sgomberare il campo da inutili dubbi – mio padre.
“Babbo, perché quei signori si lamentano dell’insiemistica e del Diagramma di Venn?”
“Paola, quando le persone vogliono mettere il becco su questioni che non conoscono, dicono per forza cose errate. Io non posso lamentarmi perché non faccio l’insegnante, ma posso e devo congratularmi con la tua maestra dato che riesce a trasmetterti tutte queste nozioni. Tu fregatene, ma impara a parlare solo di quello che sai, altrimenti le figuracce sono dietro l’angolo.”
“Ma, babbo, tu sei bravo!”
“Paola, lascia stare me: io non sono la signora maestra.”
Ecco, se per me mio padre è stato un intoccabile, altrettanto lo è stata la signora Maria Teresa, la maestra. Così ho capito sin dalla scuola primaria che la matematica non è opinabile, ma che le mie idee possono esserlo, solo e solamente qualora io le voglia imporre o raffrontare con quelle altrui, aprendo uno scambio, un confronto o una possibile sintesi.
Se – invece – espongo un mio sentire, non sono tenuta a dare neppure troppe spiegazioni: è mio, mi riguarda, è la manifestazione schietta e sincera delle mie emozioni personali che trascendono dalle pregiudiziali della solita Armata Brancaleone la quale, chissà come mai, arriva puntuale a supporto di chi lede la mia libertà di pensiero.
Le frasi di circostanza, i tentativi – sciocchi – di appianare con luoghi comuni cose serie e situazioni di spessore, mi sfiancano. Sono logoranti. Patetici. Ridicoli.
Le cose vane consumano energie: sono parole spese male e dette tanto per dire, sgretolano la pazienza anche a chi resta immobile, come una statua di sale. Non ci si abbassa a livelli infimi nel rispondere – le talpe sono avvezze, non le persone intelligenti – però si ha desiderio di silenzi capaci di essere rifugio, di spazi dove potersi rilassare, di un’area perimetrale libera e personale entro la quale fermarsi, riflettere per poi ripartire.
“Ci vuole decompressione, come quando si riaffiora dal fondale marino dopo una discreta apnea.”
Hai un problema con la salute? “Porta pazienza, tanto tu sei una roccia.” Hai un familiare che non sta bene? “Tanto tu sei una roccia, comunque io lo so, bla bla bla.” Hai un lutto straziante? “Porta pazienza, poi passa, tanto tu sei una roccia.”
Io ringrazio – per carità e per educazione – ma non ho necessità di sentirmi inquisita se sono seria, né ho desiderio mi si racconti che sono una roccia. Sono quella che sono, lo so bene da sola, ho contezza di me stessa e sono una persona compiuta: sia fatta chiarezza su questo, per prima cosa. Stabilisco un altro punto fermo: non chiedo, mai. Questo dovrebbe essere un concetto assai significativo. Se sono meno disponibile, ho i miei motivi (e, lecitamente, non ho desiderio di fornire spiegazione alcuna). Resto comunque educata e non entro nel personale, mai: perché agli altri resta così difficile comprendere le sfumature?
Da quasi un mese sono stanca, non tanto per gli impegni che mi sono piovuti in testa, o per il dolore allucinante causato da una perdita che mai avrei creduto: a stancarmi è la stupidità che – puntuale come nei meccanismi degli orologi svizzeri – mi aleggia attorno, riecheggiando all’infinito con frasi di circostanza fra le più stupide che io possa aver sentito. Ecco, al mattino – a parte il cane e il solito caffè doppio o una delle mie collane di perle – mi sembra di aver terminato già ogni riserva d’energia e mi devo sforzare per tacere, per non rispondere, per fingere di non aver compreso dove si ferma l’altrui mondo parallelo (fatto solo di sentenze mai richieste, emesse da giudici non togati) e dove comincia il mio spazio vitale. Quello della mia mente che ragiona da sola e risponde ai quesiti della mia anima cercando, sempre, un filo logico. Quello che – a volte – manca a chiunque e che, ancora, io cerco da sola.
“Se credi che sia sufficiente abbandonare tutto e ricominciare a vivere altrove ti sbagli, e di grosso.”
Quante volte succede di sentire il desiderio di fuggire per riprendere in mano la propria vita altrove, distanti da cose e persone che ci hanno ferito? Ebbene, tutto ciò è normale, non è altro che un comune momento di stanchezza, una reazione che mette alla berlina le fragilità umane.
“Ricordati che un posto vale l’altro e che – ovunque tu vada – porti te stesso con te: fatti una buona compagnia restando dove sei, affronta le situazioni, risolvi la tua esistenza e non penserai mai più di scappare. La vita offre occasioni indipendentemente dal luogo in cui la vivi.”
Perdona il tuo passato, si chiama così perché è già stato, è avvenuto, ti ha insegnato – nel bene o nel male – e, se poteva umanamente andare meglio, cerca l’errore (o gli errori) al fine di non replicare. Se non poteva umanamente andare altrimenti, arrenditi, vai oltre, accetta ciò che è scritto nel libro della tua vita. Per quanto scomodo possa essere, non esiste un Deus ex machina e non c’è per te così come non c’è per nessun altro.
Comunque siano andate le cose, tu cerca di correre e di gettare il cuore oltre, altrove: gli ostacoli si chiamano così perché vanno oltrepassati.
La pace interiore è l’atteggiamento più intelligente: non serve un posto speciale, serve che tu possa restare dentro di te con la giusta armonia. Il posto migliore dove stare non è un luogo fisico, è dentro te stesso. Per questo devi ricordarti che un posto vale l’altro quando tu sei in armonia.
Ci ho fatto caso, gli insospettabili sono quasi sempre i più malefici: il peggio regna sovrano là dove non crederemmo mai. Svetta con tutta la sua banalità, con la perfidia che lo accompagna, con quella parvenza fasulla di ovvietà – che non è affatto naturale – e, intanto, ci investe.
Da un po’ sto diventando amante della solitudine pensata e pensante, non rispetto più i tempi consueti, preferisco mangiare quando ho fame, dormire se e quando ho sonno, vestirmi comoda, starmene sulle mie e dichiararmi essenzialmente se ne vale la pena. Conservo energie e faccio la scorta, come le formiche. Metto via un prezioso raccolto, la pazienza, lo custodisco gelosamente: col tempo ne ho seminata talmente tanta che – ad oggi – sarebbe dovuta crescere come la gramigna, eppure è andata diversamente.
L’età della consapevolezza è anche questo: prendersela con più calma, dirsi di rallentare, cominciare a spendersi meno e sbirciare gli altri, scrutare chi – a sua volta – si è speso o si spenderebbe per te.
Cercare di agire allo stesso modo soltanto con chi ti risponde e ti corrisponde è necessario.
Non sovrastare e non precludere nulla, né a te, né al prossimo, ma non gettare impegno là dove il solo effetto possibile sarebbe quello di un boomerang. Ti faresti del male, molto.Piuttosto siediti, soffermati, anche senza una vista mare, ma cerca la connessione con le tue radici e continua a far crescere pazienza. La raccoglierai. Se non tutta, forse, sarà anche meglio: lascia in eredità a tua figlia una coltivazione di pazienza, insegnale come fare se dovesse imbattersi con l’insostenibile peso dei perbenisti malefici ma insospettabili.
Arriveranno anche per lei, saranno suoi acerrimi nemici e non ci potrai essere più tu a suggerirle una strategia funzionale.
L’ultima luce tiepida di sole è cangiante _ accenna disegni variopinti tra le foglie in uno strano e caldo mese d’ottobre _ domeniche pigre scorrono lente così piano _ fuori tempo in una bolla _ quasi l’aria fosse pregna d’uno stato di calma apparente un cattivo presagio che è forse il peggiore.
L’ultima luce tiepida di sole è cangiante e _ non avendo voglia di cedere _ fingo rallento il passo trattengo il fiato dismetto le idee spengo i pensieri.
Sì, prendo tempo respirando piano e _ se mi riesce _ m’inganno un po’. Non molto, ma è quanto mi basta.
La prima luce del mattino è arrivata _ come ogni giorno _ senza aspettare nessuno che potesse reclamarla è entrata filtrando da quella solita finestra con vista mare _ ma non soltanto _ costringendomi a fare cose _ non si è curata di sapere se io ne avessi voglia o no _ è sopraggiunta come un rituale noto con irruenza e senza domandare il permesso spegnendo la quiete e la pace della notte mettendo in movimento qualsiasi cosa _ come una giostra _ m’ha caricata su di un cavallo girevole ha acceso la sua musica _ per poi galoppare in tondo è la solita spirale perversa _ in ogni alba il solito circo in ogni dì la ballata nota.
La notte sarebbe salvifica _ se solo durasse _ ma è a termine. Tutto ciò che so del buio è che dura troppo poco per darmi pace.
Ho speso le mie energie affinché il concetto di uguaglianza fosse insito nell’animo di mia figlia, esattamente come ha fatto mio padre con me. Ammetto che non ho dovuto neppure sforzarmi molto, per lei sembrava essere tutto naturale, anzi, mi ha battuta e ne sono fiera.
Finito il liceo, infatti, ha scelto una facoltà specifica per studiare “Scienza del crimine” e, dopo la laurea, ha frequentato prima l’Accademia Internazionale delle Scienze Forensi, poi l’Accademia Balistica Italiana.
Oggi mi piace assistere ai suoi primi convegni, mi rende fiera di lei ascoltarla, leggere il suo “Decalogo anti-violenza”, sapere che impartisce lezioni gratuite di criminologia alle superiori ed è molto amata dai giovani o scrutarla mentre si accorda con alcuni esponenti delle Forze dell’Ordine per decriptare il linguaggio usato da alcune vittime. Ci tengo a dire che io non ho merito alcuno: nemmeno se ha deciso di collaborare con dei veri centri anti-violenza, naturalmente senza retribuzione alcuna.
Le persone sono figlie della loro psicologia e, a volte, l’ignoranza, l’aggressività e la solita sottocultura del predominio sul più debole contribuiscono a creare dei mostri. Tutti – o quasi – si sentono in dovere di comandare, quasi la prevaricazione fosse un vanto. No, non è un vanto, è presunzione che maschera la debolezza nata dalla mancanza di compiutezza.
Secoli e secoli per capire che la storia insegna, ma noi non vogliamo imparare: deresponsabilizzarsi è meno impegnativo. Per tutti.
Non sento quasi mai qualcuno dire “Sono una persona” e me ne dolgo: i più, chissà quando impareranno? In un’epoca storica dove la fame e le malattie sono ancora endemiche, perché noi continuiamo a differenziare fra gli esseri umani? Che me ne faccio delle “Pari opportunità” se ancora oggi c’è chi mi addita e mi etichetta con affermazioni tipo “Complimenti signora, una madre da sola, come lei, ha fatto un buon lavoro”? Perché si discutono argomentazioni come le scelte sessuali, mentre si distingue soltanto fra maschio o femmina? Finché alimenteremo le differenze, saremo solo corresponsabili di chi ne trae vantaggi, quali che siano.
Destra, sinistra: quando impareranno? Buoni, cattivi: quando impareranno? Belli, brutti: quando impareranno?
Persone per bene: esseri umani corretti, quando ci abitueremo a questo?
Il mondo intero continua a girare mentre la gente comune diventa sempre meno consapevole dell’acredine e dell’oblio che la lasciano ad annaspare in una follia generale, dalla quale sarà sempre più difficile uscire.
I primi tentativi di fuga – per liberarci di questa spirale perversa – certo non ci condurrebbero dove vorremmo essere, ma sicuramente ci toglierebbero da dove siamo adesso. Io continuerei la mia corsa ad ostacoli, prima che sia troppo tardi, proseguendo per un percorso che è uno stato mentale. Il mio.
Mi faccio aria per capire _ specie quando cola acqua da tutte le parti _ e io avverto una grande differenza. Evaporo. Col rischio di scomparire. Perché _ di questa piazza _ non mi sento affatto una buona frequentatrice. Qui ci sono barili pieni di frasi dette per circostanza, ma rare gocce di spontanea lucidità. Non riesco più ad adeguarmi, mi sono forzata sin troppo. Gente che non si accorge neppure del tuo esserci, tanto è chiusa dentro al suo cerchio magico. Sono un po’ come il mercurio _ schizzo via da sola _ non mi serve restare eternamente in attesa di una qualche spinta (che – diciamolo – non arriverà mai).
Aria, per giunta asfittica, e muffe varie. Sarebbe meglio avere una sola goccia d’essenza pura, ché non saprei cosa farci con tutte queste botti piene d’aceto mescolato al metanolo.
Non so più dire se – in certi casi – avrei preferito la menzogna quale doppio oltraggio al mio (misero?) intelletto. Sì, doppio, perché omettendo si considera l’altro indegno dell’onestà morale ed intellettuale.
Questo – da persona onesta – non è un affare mio, non è una mia consuetudine. Sono sufficientemente goccia da essere rivoluzionaria, è cosa nota. Sono sufficientemente roccia da richiedere tempi immemori prima di lasciarmi scavare.
La sensibilità è diventata liquida: si è sciolta, come un ghiacciolo al sole d’agosto, e non serve alcun luogo comune – non frequentateli, sono i più pericolosi – perché qui siamo ben oltre il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Siamo distanti anni luce persino da me, che pensavo fortuna ho un bicchiere, se ci fosse da bere mi potrei dissetare. Oramai sono costretta a dire che la mia vera svolta sarebbe solo l’acqua: cercherei – come si attinge da un ruscello o da una fonte – di raccoglierne a mani giunte.
Siamo diventati ossimori, sfoggiamo terminologia moderna e consideriamo demodè la sensibilità. Non ci accorgiamo che agevoliamo le sofferenze altrui, ma parliamo di empatia. Siamo completamente indifferenti di fronte ad una società variegata, dove le madri sgomitano e crescono da sole i figli: tessiamo le lodi del padre comunque, giusto per amplificare la differenza fra uomo e donna, quella differenza che proclama perdente ogni donna. Lo facciamo perché non siamo consapevoli che basta la sensibilità e non serve l’empatia. Lo facciamo perché siamo indifferenti ma parliamo di sentimenti. E – perdonate – se non è un ossimoro lampante, cosa sarebbe?
Mi batterò sempre perché ho delle radici salde, perché – nella mia famiglia – tanto “il padre” quanto “la madre” mi hanno insegnato che tutti noi, figli e nipote inclusi, siamo persone.
Mi batterò sempre perché ho la schiena dritta e la testa alta, molto alta, tanto da affermare che io sono stata padre e madre per mia figlia che ha scelto anche il mio cognome. Una laurea e due accademie, questo si è guadagnata da sola, senza un padre ma – soprattutto – col mio supporto e con la sua stessa autodisciplina.
Mi batterò sempre perché non ho la capacità di immaginare mio padre attempato, l’ho perso in soli 17 maledetti giorni durante i quali non sarei stata disposta neanche a patteggiare con dio in persona.
Mi batterò sempre perché il dolore causato dalla mancanza soffoca, strangola, affoga (Eugenio Montale docet), specialmente nella misura in cui si è stati persone speciali – persone – specifico, perché mi manca anche mia nonna che era una donna e che mi ha amata tanto da aspettare di sapere che mia figlia si era laureata prima di esalare l’ultimo respiro.
Non mi interessa di spiegare a nessuno perché sono stata distante da Twitter per quattro anni: qui mi moriva gente come mosche dopo che si è spruzzato l’insetticida e oggi che siamo una micro famiglia – perché di fatto questo siamo io e mia figlia – non sposo l’idea, antica, obsoleta e fuori dalla realtà, di celebrazione della figura paterna. Non la sposo perché, appena ho letto, sono scoppiata in un pianto di rabbia incontrollabile. Non voglio fare un tweet piangendo, che dica quanto è stato grande mio padre per me e – soprattutto – quanto anche lui avrebbe trovato tutto ciò privo di umana sensibilità. Ah, oggi si dice empatia: caspita, va a finire che se fosse vivo lo saprebbe e la praticherebbe alla grande, come ognuna delle cose che diceva pontificando.
Faccio sommessamente notare che i governanti li ha votati il popolo. Probabilmente, se il popolo fosse stato più libero – nel senso di intellettualmente autonomo e preparato, indipendente, abituato a sviluppare una propria idea critica individuale e non omologata – oggi staremmo tutti meglio. Non discuteremmo sempre del nulla, procedendo per insopportabili luoghi comuni e avremmo compreso la differenza fra cultura, furbizia e intelligenza. Ciò che, a mio modesto avviso, sfugge ai più. Molti thread di discussione lo dimostrano in maniera lapalissiana. L’intelligenza non si studia e non è che una dote innata. Lo studio, però, permette di svilupparla. La furbizia appartiene a chi agisce soltanto “pro domo sua”. Poi ci sono persone con più titoli accademici e poca intelligenza, molta spocchia e sono niente più che l’eccezione a conferma della regola. Esattamente come, considerando il rovescio di questa sorta di medaglia, ci sono state alcune figure poco scolarizzate che – con grande buonsenso in dotazione – hanno saputo supplire alle loro lacune scolastiche. Sempre una questione di intelligenza resta. Acquisire cultura fine a se stessa, per farne sfoggio o per occupare il posto fisso, è stata la scelta peggiore della vecchia guardia. Oggi che tutto si è trasformato rapidamente e l’incertezza è diventata la sola condizione certa dell’umanità – mi si perdoni il gioco di parole, ma rende l’idea – gli individui più fragili sono proprio quelli più manipolabili dalle varie propagande comunicative.
Gli interventi che leggiamo, ad esempio, sono in larga parte scorretti anche grammaticalmente e lessicalmente. Ergo, prima di giudicare, sarebbe opportuno imparare le regole basiche della lingua madre e l’esercizio della logica.
Non sono esattamente una “grammarnazi” della rete, ma confesso che, ogni volta in cui leggo i social, rabbrividisco perché a nutrire le polemiche sono coloro che dimenticano l’H sulla prima persona singolare del verbo avere o, per citarne un’altra molto comune, sono coloro che usano i puntini di sospensione senza contare fino a tre. Come non ci fosse un domani. Ad essere onesti, caratteristica dalla quale non mi ritengo avulsa, detesto gli spazi mancanti dopo le virgole, dopo i due punti o dopo i vari punto e virgola. Mi prende quella che ironicamente io stessa chiamo “la sindrome della vecchia maestra zitella” forse, e sia: maestra lo sono, anche se prestata al commerciale. Zitella lo sono diventata per esigenze di copione e, come ogni individuo risolto psicologicamente, amo la compagnia poiché rispetto molto me stessa. Tutti questi cittadini che scrivono male e si beccano tanti complimenti grazie alla “like-crazia” da social – cuori, like, tweet e retweet provenienti dal loro solito “cerchio magico”, ricordo – votano, hanno figli, li consegnano alla scuola “così imparano l’educazione”. No, non si impara nessuna nozione se non si è già educati. Mandare i figli a scuola con una buona educazione, affinché ascoltino le nozioni e le rielaborino, è compito della famiglia. Su questa linea ha perso tutta la mia generazione, quella che elegge i governanti (per poi lamentarsene) e demanda tutto, senza grande senso di responsabilità individuale. L’ignoranza consegna le persone alla paura, al timore delle novità e questo stallo ci consegna inevitabilmente a scontrarci su ogni fronte, ci mette l’uno contro l’altro, favorisce la regressione che ci sta fagocitando nel più grande buco nero che io potessi immaginare di trovarmi a dover vivere.
Avrei voluto scrivere, così – improvvisamente – mi sono fermata su questa immagine. Mi è venuta in mente una storia vera, ho ricordato tanti racconti di mia nonna, ho immaginato anche sua madre. La conoscenza procede attraverso i ricordi, così come gli affetti si muovono per prossimità: io amo chi mi è vicino in maniera prioritaria, poi – mano a mano – conosco e apprezzo gli altri. Ciò vale per ogni individuo. Principalmente dimostriamo il nostro affetto ai nostri familiari, ai nostri amici, a coloro che rientrano nelle nostre affinità elettive. Tutti gli individui non possiamo conoscerli, questo significa che l’affetto non è mai reale se sentiamo affermazioni come “Io voglio bene a tutte le persone, amo l’umanità intera, sono buono.” – anzi, credo non esista niente di più ipocrita e meschino. Amiamo nella misura in cui daremmo l’anima per i nostri figli, compagni e affini: siamo mossi verso chi ci è prossimo, verso chi ci è accanto. E neanche sempre, ma questo è già un altro tema. Tornando sull’amore, che cosa significa la bimba della foto e perché ho pensato alla mia bisnonna? Semplice: io non ho visto mai lavare le uova, neppure quando ero bambina. Così neanche mia figlia ha mai dovuto lavare delle uova prima di farsene una in tegamino. Oggi non ci sono bambine che vanno nel pollaio, non c’erano già ai miei tempi. Però ci sono più pollai di un tempo, nonostante le uova – prodotte su scala industriale – sembrano essere d’avorio. Il merito di questa foto è stato quello di avermi fatta riflettere sulla vera essenza delle cose, sulle false apparenze e sulle nostre origini concrete. Non si può amare chi non si è mai conosciuto, si ama per vicinanza, per presenza, per fedeltà alle proprie origini, per prossimità. Questa prossimità consente agli esseri umani di riconoscersi nelle loro distanze e di rispettarsi. Inutile predicare mantra del tipo “Amo tutto il mondo, evviva la vita.”
Questa è un’estate così da dimenticare _ potendo _ dove le stelle sono scadenti e non si accendono neppure quasi come fossero lampade completamente guaste oppure ben peggio prese a sassate da un pazzo fatte esplodere da un razzo sì che sul mio pennone a sventolare c’era la bandiera bianca candida da poche pretese ma di molte attese. I depositari dell’assoluto _ sono tanti tranne me _ sanno che io sbaglio e che il tempo fugge sembrano vaticinare e mi appaiono scorati _ sono troppo seria sono troppo ironica _ c’è sempre un giudice molto banale nulla affatto togato a sentenziare per me. La cosa più buffa _ credetemi _ è che io non l’ho interrogato mai. Probabilmente _ ma è tutto da vedere _ mi resterà un po’ di mare e che sia senza stelle _ quasi _ non mi dovrebbe preoccupare.
A volte l’ansia mi ruba ogni idea non mi lascia pensare non mi lascia riflettere come uno specchio deformante mi rimanda un’immagine distorta mi sporca con angosce indefinibili mi confonde con percezioni falsate.
Sento forte il richiamo del mare il mio è un insano bisogno di purificarmi di rigenerarmi come fanno le onde sulla battigia è una sorta di necessità vitale vado a dare nuovo ritmo alla mia vita.
Allora mi raccolgo mi isolo da tutti _ o quasi _ mi distacco da ogni cosa serve a cancellare l’immagine stinta oramai confusa perché non amo essere disorientata.
Riprendo i miei contorni segni e tratti imprecisi schizzi a mano libera tracce su di un foglio nuovo _ l’ennesimo _ quasi vengano dalle mani d’una bimba che ha imparato appena come si tiene la matita.
L’idea degli altri riguardo la tua esistenza è condizionante e ossessiva, direi una sorta di psicosi che credono di poter trasferire su di te attraverso il tentativo – spesso bieco e meschino – di monopolizzarti l’identità nel quotidiano. Vorrebbero forgiare la tua immagine a loro piacimento. Meccanismo compulsivo – ossessivo, nel caso di non consapevole coercizione, la quale – di fatto – rappresenta un limite intollerabile.
Un esempio facile: sei stanca, vieni da un periodo difficile, hai fatto 1.200 km in meno di una giornata, non riesci a riposare perché, appena arrivata, trovi un altro drammatico episodio. Sì, è mancata tua zia, ennesima doccia fredda in una settimana. Corri dalla famiglia, vai velocemente dove sai che devi (e dove vuoi essere), esci e ti lanci verso la solita clinica per l’ultimo controllo col morale a terra. Terminato il controllo vedi tua madre che armeggia col suo smartphone: chiami il meccanico, la macchina è là, nel parcheggio della clinica. Rintracci tua figlia, riesci ad arrivare a casa dopo un giro a dir poco rocambolesco e ti concedi un crollo di un’ora. J’accuse!
L’idea degli altri (che hai anche avvertito precedentemente) è quella di un bel processo sommario. Leggi un messaggio secondo il quale tu saresti stata “distante” un paio di giorni perché sei una persona menefreghista. Esatto: tu non hai il diritto di andare ad un funerale, no. Ma come ti permetti? A questo punto ti scatta il nervoso. Acconsenti allo sproloquio – dopo aver dato molte spiegazioni ripetute – poi ti fai un caffè, spegni tutto e dici anche “Sì, hai ragione, sono un mostro, va bene.”
Oh, sia chiaro, prendi un libro in mano: al momento non ti insultano ancora l’intelletto né i libri, né il tuo cane e nemmeno tua figlia. Grande figlia di sua madre, è naturale sia così.
Lasciarti andare così come fosse niente come fosse semplice proprio tu che sei iconica già esempio di stile maestra di ironia _ specie nella peggiore fra le difficoltà peggiori _ come fare? Niente di meglio che tenerti accanto assurgi alla vera unicità intanto rovisto fra cose bijoux e foulard trucchi e cappelli qualche fermaglio tanti ricordi nei cassetti nella mente e nel cuore. Quelle come te non vanno mai via. Io credo sia questo che mi solleva oggi. Grazie dei saluti che ogni volta m’hai mandato fino a poco fa. Faccio altro caffè ho la collana di Radà tento di lasciarti andare come mi riuscisse ma non sei tu quella non sei una che se ne va. Tu sei l’idea di un essere che resta che suscita un bel sorriso sul volto di chi bene ti sa.
Non è l’esperienza a renderci illuminati. Ci sono persone dall’età considerevole che – ancora – non si sono tramutate in fari per chi è più giovane. Proprio come ci sono persone la cui età non è molto avanzata, tuttavia sono riuscite a fondere la saggezza e l’esperienza, imparando il più possibile da ogni episodio della loro vita.
Sapere, senza praticare, è teoria e resta tale. Praticare, senza sapere né capire, è inutile e spesso dannoso. Bisogna imparare a pensare – prima di essere invecchiati inutilmente e di aver speso invano l’esistenza – e, questo esercizio, richiede un dosaggio massiccio d’impegno pratico, mentale, saggezza, pazienza e volontà.
Prima che sia troppo tardi, prima che i rimorsi e i rimpianti conferiscano al nostro tempo quel retrogusto tanto amaro che si chiama pentimento, dovremmo andare a scavare da soli, nelle nostre prime esperienze, senza aspettare che la saggezza ci venga donata dall’alto, quasi fosse uno scatto di carriera automatico.
A quell’avanzamento di carriera – per dirla tutta – c’è chi non ci arriva. E, se non ci arriva a causa di una sua mancata comprensione, poco male: non gli costa alcuna sofferenza. Credo – ma è una mia idea – che chi comprende poco, soffra anche meno. Il ruolo peggiore, neppure a dirlo, spetta a chi avrebbe potuto capire ma è mancato all’appello. Cause di forza maggiore, sia impreviste che irreversibili e maledette.
Ho la spiaggia di fronte casa e, ogni anno, per fare 100 Mt ci impiego mezz’ora. La borsa non si può pesare, c’è qualsiasi cosa dentro. Solari, spray, rinfrescanti, libri, astuccio, pochette, spiccioli per il caffè, fazzoletti di carta, fasce e pinze per i capelli, cappello, asciugamani. Minimo due. Uno, grande e più nuovo, per la mia brandina. Un altro – azzurro e oramai scolorito – è quello che non potrei proprio sostituire. Lo porto sempre con me, lo piego come fosse un cuscino e ci metto la testa. Ha quasi 18 anni, forse anche 20. Era di mio padre, ci si sdraiava lui al sole dopo 2 ore di escursione subacquea. Ci addormentavamo al sole come due beduini dopo aver nuotato. Lui non viene più al mare con me da 15 anni, però io mi porto il suo asciugamano. Prima ancora delle chiavi di casa, del cellulare e di chissà quale diavoleria, prendo l’asciugamano azzurro di babbo Angelo. Come la coperta di Snoopy. Ah, non nuoto più come facevo con lui, non c’è più gusto a circolare intorno alle scogliere da quando lui non riemerge. Diciamo che, per essere stata una nuotatrice, adesso giusto mi inzuppo come un savoiardo nel latte. Ecco, confesso, questa cosa la devo superare. Dovrei riprendere quel genere di nuotate, però sempre sull’asciugamano azzurro e un po’ sbiadito andrò a poggiare le mie sinapsi. Sempre.
Ostacoli per la felicità? Rimozione subitanea, immediata ed assoluta. Definitiva. Pensaci. Ti imbatti con una persona la cui psiche è definita solo da negatività, critiche e tu devi capire. – Ma chi l’ha stabilito? – Sappi che, per te, attirerà solo molti guai questo sacrificio inutile. Relazionarsi è scambiare reciprocità, punti di vista, serve equilibrio – stai sicuro che nessuna mancanza aiuta – così devi andare oltre.
Ok, distanziarsi è doloroso, ma la differenza che noti è lampante e cresce, per ingigantirsi nel futuro. Guarda al dopo!
C’è gente che rimane nella tua vita solo per un breve lasso di tempo, finché tu non salti.
Sensi di colpa, obblighi, costrizioni, ricatti morali, menzogne, omissioni – varie ed eventuali – sono tutte limitazioni, per te e per gli altri, fino a quando non stabilisci una linea di confine netta decidendo da solo come vuoi gestire quel caos. Sii autonomo.
Ripensati, ripensaci e allontana tutti i rapporti castranti ed asfissianti, prendi con te la lealtà ché non è una forma di sottomissione, ma una netta superiorità. Quando cominci tu a controllare il tuo destino, smetti di rispondere a chi vorrebbe ferirti. Neanche se appartiene al tuo stesso nucleo familiare.
Insomma, ci stendi sopra un velo pietoso e li lasci convinti e contenti sapendo che – spesso – c’è chi ride solo per confondere le tracce.